venerdì 8 marzo 2024

Marco Fazzini, Roberto Jacksie Saetti

Un testimone di molti tempi, un viaggiatore, un grande songwriter, un esploratore infaticabile, Eric Andersen si è sempre trovato nel luogo giusto: il Village, Woodstock, la Rolling Thunder, insieme a Janis Joplin e a Joni Mitchell, accanto a Bob Dylan o a Lou Reed, come se avesse prenotato un posto da osservatore privilegiato. In realtà è stato a sua volta un protagonista assoluto, capace di assorbire una quantità spropositata di bellezza in forma di romanzi, canzoni, viaggi e poesie, album in omaggio a Byron, García Lorca, Heinrich Böll e molto altro ancora. In Mingle With The Universe li racconta confidandosi a un manipolo di amici italiani (e americani) che hanno libero accesso alle sue passioni, e spesso le hanno condivise in un modo o nell’altro. In cima alla lista, Marco Fazzini e Robert Jacksie Saetti sono in realtà i cardini di una moltitudine di autori (Giorgio Checchin, Anthony DeCurtis, Barbara Di Dio, Gregory Dowling, Michele Gazich, Ian MacFayden, Stephen Petrus, Paolo Vites) che rincorrono Eric Andersen nelle sue odissee e seguono i non pochi fantasmi lungo la strada. È così che Mingle With The Universe è un caloroso omaggio a Eric Andersen, ma anche e soprattutto alla sua curiosità, emanazione diretta della stessa fame di arte & meraviglia dell’amica Patti Smith, ma convogliata con un entusiasmo immediato, diretto e contagioso. Eric Andersen è un raro esempio di artista che coltiva la cultura senza sosta ed è insaziabile nel procurarsi il pane quotidiano. Nelle pagine di Mingle With The Universe la sua attitudine è esplorata con lo stesso entusiasmo e nella lunga ed esaustiva intervista introduttiva, viene descritta la sua dedizione alla letteratura (“I grandi scrittori per me sono come angeli protettori, angeli posati su una spalla a controllare che il lavoro sia ben fatto. Non si tenta mai di imitare i propri eroi. Ti stanno solo accanto, e controllano che ci proceda, che non si finisca in acque basse o nel cliché di pensiero e immagine. Ti dicono che non sei solo. E ti incoraggiano”), l’ammirazione per i sogni e le strade della Beat Generation (“L’eredità dei Beat sta nel fatto che hanno introdotto gli americani, e la gente d’ogni parte, a un nuovo modo di pensare e di vedere, offrendo una alternativa e un modo libero di esistere, facendo respirare la vita, goderla, esserci dentro”), l’afflato verso la scrittura e la lettura (“I libri sono come delle finestre sacre verso mondi sconosciuti”) e le dissertazioni sulle magie del songwriting (“Forse le canzoni non hanno un’origine nel reale. Forse fluttuano solamente nelle nubi, e aspettano di essere tirate fuori dall’aria sottile”). Non a caso il centro di Mingle With The Universe è occupato da una selezione di quelli che chiama i suoi “documentari interiori”, ovvero le canzoni che, secondo l’illustre parere di Anthony DeCurtis, “senza tener conto dei suoi diversi soggetti, sembra aver scritto da un luogo profondo dentro se stesso”. Forse, tra i tanti indizi autobiografici, vale la pena ricordare che in Time Run Like a Freight Train celebrava “il poeta che aveva impegnato il suo mistero per un poco di sollievo”. È il segnale di un cerchio che si chiude da quando i suoi eroi “erano quegli spiriti ribelli e senza restrizioni che stavano scrivendo di una vita oltre l’ovvio, e che potessero demolire barriere”. Se c’è un senso nella ricca e composita formazione di Mingle With The Universe è proprio quello: è schierato in senso univoco (ma come si fa a non essere di parte con uno che ha scritto Blue River?) ed essendo bilingue, bisogna dire che è un labour of love come ce ne sono pochi e rende a Eric Andersen quel tanto di giustizia poetica che si meritava, da almeno mezzo secolo.

lunedì 23 ottobre 2023

Marino Severini

Il primo maggio 1991 i Gang arrivarono senza indugi al festival dei sindacati a Roma. Avevano alle spalle quello che risulterà essere l’album più importante della loro lunga storia, Le radici e le ali. Avevano una formazione compatta ed esperta, con tanto di sezione fiati al seguito. C’era la televisione nazionale a riprenderli in diretta, davanti a una platea di centinaia di migliaia di persone. Tutto, ma proprio tutto, concorreva ad annunciare un trionfo. Il coro degli angeli e il vento della primavera cantavano all’unisono nella cornice perfetta delle rovine dell’impero. I Gang dovevano solo abbracciare il loro destino che era lì, davanti, tangibile, benché a loro apparisse come una sorta di miracolo o, al massimo, un miraggio. Salirono sul palco. Lessero un comunicato. Invocarono lo sciopero generale. Amen. È soltanto una delle tante storie che Marino Severini allinea e interseca con le canzoni e con dozzine e dozzine di riflessi che comprendono Joe Strummer, Bob Dylan, Woody Guthrie, Billy Bragg, Sant’Agostino, Pio La Torre, Nebraska e i fratelli Cervi, Elvis e la Banda Bassotti. Un gran bel circo: Marino Severini è un cantastorie che ammalia e coinvolge senza particolari velleità letterarie, è il prestigiatore che sfodera un aneddoto dopo l’altro e seguirlo è un’impresa perché le parole hanno ali leggere, nonostante l’importanza che via via assumono. Il bon ton dello scrittore qui è messo da parte (e del resto anche i Gang sono sempre stati allergici alle regole) e si intuisce lo sforzo di Alberto Sebastiani (abituato a ben altre intemperanze) nel dare forma compiuta al dilagare di ricordi, proclami, emozioni e volti. Persino l’ortografia viene maltrattata neanche fosse una Telecaster. Le maiuscole fioriscono come se fosse sempre la bella stagione. Rimandano a un’entità superiore, sia essa politica, religiosa o musicale. Ma è una fede di tipo diverso soprattutto perché pare essere indirizzata verso una forma di intelligenza collettiva, decisamente più empatica ed efficiente di quella artificiale. Una comunità di intenti che ha i suoi luoghi di elezione (uno su tutti, l’Intifada nella Val di Scalve), i suoi riti, le sue strade. L’ordine, a volerne proprio cercare uno, lo dettano le stesse storie che conducono avanti e indietro nel tempo, come se fosse possibile rileggere il passato o prevedere il futuro. A quel punto, e siamo già addentrati un bel po’, Marino Severini mette le canzoni in valigia (ma qui, con un minimo di dimestichezza tecnologica potete sentirle una dopo l’altra sfogliando le pagine) e parte, e riparte, perché “ogni incontro è una prova” e “o ti trovi, ritrovi te stesso e chi sei veramente, oppure ti perdi”. Attraverso le “storie d’Italia” e degli altri procede a riscoprire le sue origini, il valore della terra, e lo spirito familiare dei muratori che non sapevano nemmeno l’italiano, figurarsi se capivano cosa dicevano i Clash. Eppure è proprio lì che avvengono la vera confessione e la svolta nel riconoscere il dilemma della provincia, “la paura di restare isolati” e nello stesso tempo la curiosità, l’ammirazione per i viaggiatori, la necessità di fuggire, ma anche di avere coscienza di una direzione ben precisa (“Per noi era importante andare comunque, ma al contrario”) che, alla fine, impone di scoprire che oltre all’infinita partenza c’è anche un ritorno, quello che ti tocca, e ti tocca nel profondo. Su questo non c’è dubbio o contraddizione che tenga perché, come spiega fin troppo bene Marino Severini “le cose viste da lontano, anche lontano nel tempo, hanno un altro sapore. Le vedi più chiare dentro di te, anche se fuori sembrano dei fantasmi”. Ed è così, che trent’anni fa mentre il nuovo ordine mondiale avanzava (e guarda un po’ dove siamo arrivati), dopo aver suonato Socialdemocrazia, i Gang non misero più piede in televisione e, se è per questo, nemmeno in un casa discografica, ma si inventarono un altro mondo, e un altro modo di viverlo, e qui dentro lo trovate tutto, ancora intatto, brulicante di vita e sempre schierato dall’altra parte, quella giusta.

lunedì 9 ottobre 2023

Pier Luigi Luisi

Anna e Marcel si incontrano davanti a un quadro di Klimt, a Zurigo, una città su cui persiste ancora l’ombra di Carl Gustav Jung. I due si affrontano al capolinea delle rispettive solitudini: Anna è una violoncellista e Marcel è un neurobiologo che indaga le “immagini asignificative”, ovvero I lampi tranquilli della mente, e che dopo aver perso la moglie, non ha più notizie del figlio, Jonathan. L’intreccio dei rapporti, il confronto psicoanalitico, la coabitazione con la rapidità dei pensieri e dei rimpianti, il continuo inseguirsi dei ricordi e dei sogni fanno capire che “i moti della mente e del cuore sono molto sottili, non si comprendono sempre bene”. La storia con Anna procede spontanea, ma quando lei si ritrova a riavvicinarsi a Bartolomeo, anche lui musicista, che ha il destino segnato e i giorni contati, s’impone un cambio di passo. Dato che “l’amore ha il proprio tempo, cammina con la sua velocità”, Marcel gli concede la divagazione che lei sente necessaria, anche se il loro legame è ancora fragile. Vorrà essere ricambiato quando uno degli sbalzi tra I lampi tranquilli della mente gli fa incontrare Maria Dolores Martinez, che per lui è frutto della nostalgia di un lontano, platonico amore. A sua volta Anna lascia che Marcel segua l’istinto e il suo si rivela un viaggio a ritroso nel tempo piuttosto che nello spazio. Come dice Pier Luigi Luisi nella prefazione “la mente ci suggerisce fantasiose relazione amorose e ci fa perdere in dettagli assurdi” ed è per questo che il tragitto di Marcel da Zurigo ad Acapulco via Mexico City è una specie di pellegrinaggio verso un miraggio sfuggente. Pur continuando a pensare ad Anna, Marcel ritrova se stesso e vive incontri importanti con una gioventù rintracciata in riva all’oceano e reminiscenze che si inseguono come tuoni e fulmini in un temporale. La leggerezza con cui Pier Luigi Luisi sfiora temi vitali permette a Marcel di riorganizzarsi e così I lampi tranquilli della mente si rivelano piccole parti di un mosaico che va via via componendosi. Le sequenze si incastrano una nell’altra mentre la storia scorre un po’ a rimbalzi, ogni salto una scansione temporale e un nuovo, suggestivo personaggio. È di sicuro un riflesso dell’idea che la vita avviene nella nostra testa, dove I lampi tranquilli della mente imperversano costringendoci a svolte impreviste e a decisioni incomprensibili. Se i frammenti vanno a comporsi e a sciogliersi nella scrittura di Pier Luigi Luisi è perché, come gli dice che Felipe, l’amigo chitarrista, la vita è proprio così, “è come una nave che salpa, e una volta salpata, non c’è più ritorno. Si va solo in una direzione”. Il concatenarsi degli eventi si sussegue, mentre Marcel cerca di delineare le immagini e mentre è impegnato a cercare la volubile donna messicana che per lui è ancora un’antica promessa, come capita spesso, trova qualcun altro e questo succede perché, come dice Pier Luigi Luisi “osservare le bizzarrie create dalla mente è in effetti una forma acuta riprendere possesso del proprio territorio”. La ricerca del tempo perduto (il nome del protagonista è un indizio abbastanza evidente, e non è l’unico) si conclude con una sorpresa, ma questo tocca tanto a Marcel quanto al lettore scoprirlo, perché I lampi tranquilli della mente assicurano la partenza, ma le destinazioni restano imprevedibili.

martedì 5 settembre 2023

Francesca Cerutti

Milano è “una città di giardini segreti dietro portoni di legno e citofoni di ottone tirati a lucido, con numeri al posto dei cognomi”. Questa collocazione suggerisce già la condizione generale in cui si muovono i personaggi di Pretendi un amore che non pretende niente, avvolti, proprio come le vie in cui si muovono di “una bellezza discreta e travolgente al tempo stesso”. È tutto sospeso nella fragilità di quella zona chiaroscura tra l’adolescenza e a un tempo imprecisato che scarnifica i giorni e riduce al minimo i rapporti. Il più delle volte l’età adulta è un passaggio ancora da compiere, che si porta dietro i resti di incontri, separazioni, partenze e ritorni. Si chiamano di Irene e Viola, Elisa, Niccolò, Giorgia, Margherita, Luca, Gaia, Claudia, Diego e Riccardo, non sono volti difficili da immaginare, e cercano di districarsi nella ragnatela concentrica di Milano, ma soprattutto vengono colti nell’elaborare la distanza con l’altro e/o l’altra perché come giustamente dice la protagonista di Ci sono notti, “cercare una persona e pensarla sono due cose diverse”. In modi diversi e, proprio per questo, narrati con un differente abito, si trovano tutti in mezzo a un guado: piove ma c’è il sole, ci sono i Radiohead e Dino Buzzati, i fari degli aerei e i riflessi nei finestrini del tram (onnipresenti, e scandiscono il ritmo con la loro tabella di marcia, incidenti compresi), le cornici sfuggenti dei sogni e dei ricordi, albe e tramonti e, ancora, gli angoli e le ombre di una Milano notturna, dolce, segreta che adesso bisogna cercare con una lanterna magica e con molta fortuna. La ricerca della giusta tonalità di luce, compreso l’omonimo racconto, è continua, ma non è una semplice decorazione: c’è una rarefazione delle immagini che riesce a definire legami fugaci vissuti quasi in una dimensione lattiginosa, sfuggente, comune a tutti i racconti di Pretendi un amore che non pretende niente. L’atmosfera generale è un sipario ondeggiante e ingannevole, che si contrappone alla precisa delimitazione nel recinto nelle circonvallazioni, come se gli aspetti emotivi avessero assorbito l’ininterrotto movimento della città. È proprio lì che Francesca Cerutti prova a tessere i delicati fili che intrecciano le storie d’amore e d’amicizia. Sono trame molto fragili, pronte a incrinarsi per un gesto, un silenzio, una frase, corpi che si sfiorano, promesse che svaniscono. La grazia della scrittura, una leggerezza che riesce a mantenere l’equilibrio in tutti i cambi di registro, rende le storie piccole, fedeli istantanee dei nostri tempi, dove per essere abbandonati basta un messaggio digitale, e tanti saluti. La scrittura appare una soglia da varcare o un appiglio, come succede in Una nuova insubordinazione, forse è proprio la “piccola ribellione” di Salinger, spiritual guidance di Pretendi un amore che non pretende niente nel suo complesso. Setacciare le parole, pronunciate o (spesso) non, riporta alle prime avventure in nome dell’amore e dell’amicizia, alle scoperte e ai drammi dei giorni di scuola ormai ridimensionati, ai tentennanti passi tra la zavorra dei rimpianti e l’incombere del futuro e, per parafrasare la stessa Francesca Cerutti in Un presente diverso, diventa “qualcosa di indefinito e bello”. Un po’ come Milano, un po’ come chi affronta la scrittura con cautela, sbirciando negli androni. La sorpresa potrebbe essere lì dietro, attendiamo sviluppi.